Da tempo ormai, complice probabilmente anche la crisi economica e l’elevato tasso di disoccupazione, assistiamo ad un ritorno, soprattutto da parte dei giovani under 35, alla coltivazione della terra e dei grani antichi, a lungo messi da parte a vantaggio dell’utilizzo di farine prodotte su larga scala, data anche l’attuale nuova attenzionealla genuinità e qualità del cibo.
Il pane, la pasta, i dolci e gli altri prodotti da forno presenti sulle nostre tavole sono generalmente realizzati con la tradizionale farina di grano tenero bianca 0 o 00, ricavata, tra l’altro, da un grano povero dal punto di vista nutrizionale, selezionato e modificato nel corso degli anni per rendere più ricca ed abbondante la produzione.
Le vecchie popolazioni di frumento, al contrario, sono varietà del passato che non hanno subito la pressione genetica dell’industria agroalimentare e per questo restano autentiche ed originali ed hanno una resa minore rispetto al più diffuso grano il che spiega un prezzo di vendita notoriamente più alto.
Tra questi il canadese Khorasan (conosciuto con il brand registrato Kamut), e molte varietà italiane fra cui il Senatore Cappelli, la Saragolla, la Tumminia, il Gentil Rosso, il Verna, il Rieti e tanti atri.
Ad Ascoli Piceno Daniele Ciabattoni, 34 anni, da tempo si è messo in gioco in questo ambito, decidendo di dedicarsi sia alla coltivazione del grano destinato alla panificazione sia allo studio ed alla sperimentazione di miscele di grani adatte alla pastificazione, facendo già pastificare parte del suo grano in una piccola attività artigianale abruzzese.
“Volevo coltivare il grano con il quale avrei preparato il mio pane – spiega – così mi informai sui metodi di coltivazione e scoprii che per coltivare il grano c’è bisogno di usare una sostanza chimica chiamata diserbante poiché le spontanee crescono più alte del grano, per cui, non riuscendo a competere, soccombe. Non mi sembrava una soluzione sensata così iniziai a studiare il frumento e scoprii che una delle sue caratteristiche tipiche è proprio questa sua tendenza a competere per la luce sfruttando il suo portamento alto. Così cercai delle varietà che rispondessero a questa intrinseca tendenza di raggiungere il sole e scoprii che bisognava tornare indietro per trovare una genetica che avesse conservato ancora questa caratteristica”.
I grani antichi sono senza dubbio più buoni e pregiati rispetto alle varietà moderne, cosa che si riflette anche nei sapori e negli aromi nettamente diversi e sono spesso frutto di piccole produzioni agricole.
“La mia esperienza inizia dal mio maestro Martino – racconta Daniele – uno Chef di origine contadina che decise di mettere su una stalla di Vacche di razza Marchigiana, esasperato dal cattivo odore che produceva la carne che era costretto a utilizzare nei ristoranti dove lavorava. Il suo ricordo era quello di un profumo sconvolgente che dalla cucina della sua casa, quando era ancora ragazzo, rapiva chiunque stesse lavorando nei dintorni. Era il profumo di una carne sana di razza Marchigiana. La sua ricerca è molto simile alla mia, la genetica di questa razza ha perso tantissimo in pochissimi anni di miglioramento genetico ad opera dei signori delle scrivanie così li chiama lui, proprio come il frumento. Dopo aver conosciuto una serie di cerealicoltori italiani rimasi folgorato dall’incontro con Nicolas Supiot un contadino fornaio Bretone che cambiò totalmente la mia visione della filiera riempiendola di senso e significati di una profondità disarmante. dopo alcuni incontri in Italia decisi di passare un po’ di tempo in Bretagna per imparare il più possibile dalla sua esperienza. Annualmente organizza degli incontri formativi molto preziosi anche per la presenza di microbiologi, nutrizionisti e agronomi pieni di entusiasmo per via della riscoperta di una nuova agricoltura del vivente”.
Eppure molte volte l’esclusione dell’utilizzo di prodotti di sintesi e degli organismi geneticamente modificati e la promozione della biodiversità dell’ambiente, che definiscono il concetto di agricoltura biologica, non possono essere ridotti ad una certificazione trasparente pianesiana, un sistema di etichettatura alimentare finalizzata alla trasparenza sulla qualità del proprio prodotto e sull’impatto ambientale:
“Il cibo è relazione per cui per me il bio non ha alcun senso – prosegue – è un tentativo di deresponsabilizzazione dell’individuo: sostanzialmente si delega qualcuno per vegliare sulla bontà del cibo ma non è la via che può portarci a produrre e mangiare responsabilmente. Alcune parole come territorio, locale, specialità sono state svuotate dal loro reale significato e riempirle di nuovo è un gesto veramente rivoluzionario. Sullo scaffale, per quante certificazione e bollini troviamo, non potremo mai trovare del cibo che nutre realmente, perché la capacità di un cibo di nutrire è strettamente collegata alla sua biografia: di un cibo morto potremmo accontentarci di leggerla su di una etichetta trasparente o pianesiana che sia, ma un cibo vero, vivente, dobbiamo conoscerlo dal vivo, cercarlo, riconoscerlo e finalmente rianimare il territorio con la nostra presenza nelle aziende e sulla terra”.
La riscoperta di questi grani antichi, infatti, oltre a favorire la biodiversità, consente di salvaguardare il valore storico e culturale degli stessi e del territorio in generale, tutelandone il patrimonio. La regione Marche offre questi prodotti, generalmente coltivati in modo non intensivo in quanto più difficili da lavorare, fra cui la Jervicella, in passato largamente diffusa nella provincia di Ascoli Piceno e Fermo ed in generale nel sud marchigiano, e la Saragolla, il “chicco giallo” (dal bulgaro antico Sarga giallo e Golyo seme).
“Noi siamo davvero fortunati a vivere in un luogo come Ascoli – precisa Ciabattoni – che può permetterci in pochissimo tempo di raggiungere i luoghi di produzione del cibo. Dobbiamo conoscere chi produce, chi trasforma, imparare cosa significa e tutta la fatica che c’è dietro al cibo vivente e nutriente per essere così finalmente disposti a riconoscere a chi effettivamente e follemente opera nella qualità la vera ricompensa economica che sarà riconoscenza per l’importantissimo ruolo svolto. Così salviamo il territorio, così facciamo cultura, così riempiamo le parole spesso pronunciate ad esclusivo scopo propagandistico. E la smetteremo di dire cose banali come il bio costa di più”.
Per valorizzare il territorio ed i suoi frutti, però, non basta acquistare prodotti recanti la certificazione bio, sempre più richiesta dalla popolazione, anche per il bombardamento mediatico sulle conseguenze di un’alimentazione poco genuina sulla salute e sull’eventuale insorgere di specifiche patologie, nonché sull’impatto ambientale, ma è necessario stabilire una vera e propria relazione con lo stesso:
“Il concetto di bio – continua – serve ad alimentare un’economia fatta di mangiacarte. Come pretendete che una piccola azienda formata da un allevatore o un coltivatore sia capace di stare dietro ad una serie di incartamenti folli per natura? Lasciate che il pecoraro si occupi di cacio, che il cerealicultore di grano e l’ortolano di verdura. Più che altro preoccupativi di stabilire una relazione, una conoscenza ed un percorso di approfondimento. Il cibo sano non è un diritto garantito dal bollino bio, è una conquista che oggi con fatica dobbiamo fare tutti i giorni perché per alimentare milioni di persone che non si occupano più del loro cibo dobbiamo per forza allevare e coltivare in maniera suicida ma questo è inevitabile. Il cibo sano, se davvero ci interessa, dobbiamo andare a cercarlo nelle campagne che abbiamo rinnegato durante il miracolo industriale, dobbiamo sapere che è raro e che non basta un logo perché sia effettivamente sano e nutriente. Il cibo è una questione di relazione con il territorio, tra esseri umani, con la realtà materiale che non è la tastiera, il giornale o la televisione ma è fatta di gesti quotidiani pieni di sudore e fatica che finirà di essere una cosa brutta e da evitare quando gli restituiremo l’entusiasmo costruttivo di un progetto di vita ricco di significati profondi”.