Ciascuno di noi ha una storia: una storia fatta di partenze e di ritorni, di fallimenti e di successi. Alcuni dosano gli ingredienti con parsimonia, altri privilegiano un aspetto a discapito di un altro, alla ricerca della combinazione perfetta. Mauro Cipolla di dosaggi ed ingredienti se ne intende, nella vita come nel lavoro: economista geografo milanese trapiantato negli States, socio fondatore della Caffè d’arte e amministratore delegato della Orlandi Passion, situata nella zona industriale di Monteprandone, nel 2016 è stato premiato dal Gambero Rosso con i prestigiosi “tre chicchi” mentre la sua azienda viene indicata come una delle migliori torrefazioni presenti in Italia. “Sommelier del caffè” e mastro cioccolataio, il mestiere ce l’ha nel DNA: nel 1917 la sua bisnonna, Margherita Cavallotti Orlandi, apriva a Milano El Caferin dove serviva ai suoi clienti caffè espresso e cioccolato. “La cosa buffa della vicenda – mi spiega Mauro – è che ho scoperto questo legame con la mia bisnonna solo in età adulta, quando ero già nel campo del caffè”. Un campo che domina da più di 40 anni, tra pubblicazioni di libri e conferenze, portando alta la bandiera del made in Italy e rispettando sempre i valori della sostenibilità ambientale.

Partiamo dalla sua storia: infanzia a Milano, adolescenza a Seattle, ritorno nel bel paese e investimento nella zona del piceno. Da cosa deriva la sua scelta? I miei si trasferirono negli Stati Uniti quando io ero molto piccolo ma ogni anno venivamo al mare a San Benedetto, nella casa estiva di una mia zia rimasta a Milano. Ricordo una città diversa, con molti meno stabilimenti e una spiaggia che non si era ancora ritirata tanto. Sono sempre stato affezionato a questi luoghi, investire qui è stata una scelta naturale, coerente con il mio trascorso. Certo, è ancora presto per parlare di ritorno economico, ma mi sono preso soddisfazioni ben più grandi.

Ad esempio? Qui si riesce ancora a trasmettere un’idea sana di artigianalità. Sia che si lavori in campo alimentare che in qualsiasi altro settore, non è la parola “artigianato” a garantire qualità. Serve anche l’esperienza, ed è quella a fare la differenza. Quando si riesce ad associare questo messaggio, non sempre facile da veicolare, al proprio prodotto ne traggono vantaggio tutti, dal produttore al consumatore.

Durante il periodo a Seattle lei scrive una testina che intitola “L’America è una dittatura capitalistica”. Eppure è lì che muove i primi passi nel mondo degli affari. Sì, anche molto presto: a 21 anni importavo dall’Italia pellami, borse e articoli simili che poi vendevo a terzi, generalmente negozi e istituti. L’errore fu entrare nel giro della Grande Distribuzione, un business che non riuscivo a capire e che quindi non potevo fare bene. Venni scavalcato dai grandi buyers che si rivolsero direttamente ai fornitori, tagliandomi fuori. Riprovai nell’83 cambiando articoli e puntando sul cibo: con la Orlandi Specialty Food trattavo marchi come Ferrarelle, Citterio e Ferrero ma anche in quel caso non andò bene, sempre per gli stessi motivi. Imparai la lezione e due anni più tardi nacque Caffè d’arte, che ancora oggi continua il suo bel percorso.

Avete molti punti vendita in America? Siamo presenti soprattutto nella fascia Ovest e da poco in California. In realtà avevamo già degli stores a Los Angeles e San Diego ma i nostri prodotti erano troppo avanti rispetto a un tipo di clientela ancora poco educata alla “tipicità” alimentare. Oggi la situazione è cambiata, il consumo si è fatto più consapevole, quindi abbiamo deciso di riprovare.

Rimaniamo nel discorso della qualità: lei ha definito il suo «un caffè con personalità ed equilibrio che ti rispetta e rispetta l’ambiente poiché “puro”». Davvero l’impegno ambientale influisce anche sulle caratteristiche del prodotto? Ogni aspetto della produzione produce dei micro-effetti che si sommano e vanno ad influire sul gusto e la qualità finale del prodotto, che a loro volta determinano la percezione del consumatore. Le faccio un esempio: la raccolta. Noi cogliamo solo arabica naturale, che ha un minor impatto ambientale, rigorosamente a mano in modo da rispettare il giusto punto di maturazione della drupa. Evitiamo l’utilizzo dei macchinari, che produrrebbero consumi ed emissioni nocive, e non danneggiamo la pianta così da garantirle un ciclo di vita più lungo e sostenibile. Stesso discorso per l’asciugatura: adesso va molto di moda il caffè “lavato”, ottenuto cioè immergendo i chicchi, ancora coperti dalla loro membrana, in grandi vasche piene d’acqua. Il dispendio d’acqua è impressionante e a questo si aggiunge quello energetico delle macchine di estrazione e di asciugatura. Noi non adottiamo questa lavorazione ma lasciamo che sia il sole ad agire, naturalmente, permettendo poi ai chicchi di essere “sfogliati” a mano.

caffè torrefazione Orlandi Passion

Considerata l’attenzione all’ambiente ci si aspetterebbe di trovare la dicitura “bio” sui suoi prodotti, invece lei non vende caffè biologico. No, perché ritengo che il marchio bio non sia necessariamente sinonimo di garanzia, qualità e affidabilità del prodotto. La difficoltà non sta tanto nell’ottenere questa certificazione ma nel mantenerla senza trascurare nessun processo di lavorazione. Posso dirle che il caffè, per rispettare davvero gli standard richiesti, avrebbe bisogno di condizioni micro climatiche che oggi non esistono più. In passato ho effettuato degli studi mettendo a confronto caffè biologici e non: è venuto fuori che i secondi erano molto più naturali dei primi. Ma questa è anche una conseguenza del giro d’affari che c’è dietro e che, purtroppo, genera mistificazioni ai danni dei consumatori.

Durante le sue dimostrazioni Rossano Ercolini, ideatore e promotore della strategia sui rifiuti Zero Waste, mette spesso in guardia sulla scarsa riciclabilità di alcuni prodotti, come ad esempio cialde e capsule del caffè. Quelli della sua linea sono compostabili? È da quando sono state inventate che si cerca una soluzione per il loro smaltimento. Per quanto riguarda le cialde, molte hanno un’alta densità di polimeri poiché il loro impiego permette di lavorarle con temperature e tempi più bassi, risparmiando quindi energia. Il lato negativo è che sono difficilmente riciclabili. Le nostre cialde hanno solo il 7-8% di polimeri e un alto livello di cellulosa che le rende più lunghe da lavorare ma decisamente più facili da compostare. Le capsule hanno invece un processo di riciclaggio diverso; quelle che abbiamo usato noi fin ora hanno una plastica particolare i cui polimeri vengono rotti dalla luce e da un certo tipo di humus. Il problema delle capsule, però, è che quelle realizzate senza film in plastica e senza ricorrere ad escamotage come la gonfiatura del caffè, producono un caffè che i clienti dicono avere poca schiuma, anche se fa un’ottima crema. Per questo, per ora abbiamo deciso di interrompere la produzione e la vendita delle capsule e stiamo invece investendo nella ricerca: vogliamo coniugare l’attenzione per l’ambiente con i desideri dei nostri clienti.

Per chiudere: quali sono i progetti futuri? Continuerà ad investire nelle Marche? Apriremo un punto vendita Orlandi Passion ad Ascoli Piceno tra fine ottobre e inizio novembre, nella splendida cornice di Piazza Arringo, per il quale recluteremo nuovo personale. Inoltre, sempre a partire da settembre, andremo a formare la figura di un commerciale che proponga i nostri prodotti direttamente a famiglie e uffici, anticipandone la domanda. Ampliando un po’ il raggio, ci piacerebbe arrivare anche a Civitanova e Pescara e poi, forse, Milano. Staremo a vedere!

Daria Luzi